Enrico da non dimenticare, a 29 anni dalla sua scomparsa

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L’11 giugno 1984, 29 anni fa, è la data della scomparsa di Enrico Berlinguer. In molti, anche dirigenti dell’ex P.C.I., hanno tentato in questi anni di sbarazzarsi frettolosamente di ciò che egli ha rappresentato in termini di elaborazione politica, ideale e culturale, non solo per i comunisti italiani, ma per l’intero movimento comunista internazionale.
Contro questo tentativo, in molti si sono opposti e continuiamo ad opporsi, perché pretendono che di Enrico Berlinguer si discuta, con rigore storico, collocandolo in quel dato momento storico in cui la sua vicenda umana e politica si è svolta, evitando, possibilmente, il passaggio repentino e sbrigativo dalla celebrazione di un “mito” ad una sua “smitizzazione”, solamente perchè oggi a qualcuno “quella figura e quell’immagine, così utili in una fase di transizione e di grande smarrimento politico, ora non servono più”.
In questa corsa, che ha come traguardo dimenticare Enrico Berlinguer, in molti hanno posto l’attenzione sul “Compromesso storico”, una attenzione critica, naturalmente, anche se piuttosto ellittica. Hanno sostenuto che: “Riflettendo, dopo tanti anni, pensano che proprio di lì sia cominciata la crisi del sistema italiano. La confusione fra tenuta di sistema e tenuta di governo, ha provocato un crack nella democrazia. Forse, allora, era difficile fare diversamente. Oggi sarebbero contrari a quella confusione. La politica deve sforzarsi di leggere la storia per capire meglio la propria strada”.
Riteniamo, che questo modo di procedere sta facendo diventare il “Compromesso storico” un alibi familiare su cui far ricadere tutti indistintamente i mali della Repubblica del secolo scorso.
Per capirci, come la Repubblica del ’46 è nata nel segno dell’antifascismo, la cosiddetta seconda Repubblica è nata in odio al compromesso storico.
In questi anni in molti dirigenti ex comunisti si sono cimentati nel tentativo di spiegare “Dove Berlinguer non è più attuale”.
Entrando nel merito, si è affermato che il segretario del P.C.I. non può essere giudicato “con la matita rossa o blu”, salvo poi elencare le cose buone e le cose cattive. Tra le cose buone si elenca “l’universalismo” , la sua visione del mondo che oggi lo colloca fra coloro che capivano, nell’epoca dei blocchi e della guerra fredda, l’unicità della crisi del mondo (in termini di fame, di sviluppo, di ambiente, di libertà), la necessità di un nuovo assetto internazionale.
Però, in questo “universalismo” berlingueriano c’erano, sempre secondo questi dirigenti, ancora troppe continuità con alcuni aspetti deteriori ed obsoleti della tradizione comunista, e – rileggendo i suoi testi ora – un ritardo storico accumulato dal P.C.I. nel giudizio sulle dittature dell’Est, non superato con sufficiente coraggio.
Crediamo che da queste considerazioni si comprende il motivo vero della necessità, secondo questi personaggi, di dimenticare Berlinguer , è cioè il fatto che egli era un comunista, anomalo, ma pur sempre un comunista.
Tra le cose buone viene anche elencata “la centralità della questione morale”.
Mentre tra quelle cattive viene elencato, il fatto che “l’indicazione di un’alternativa democratica al sistema di potere Dc ” fosse rimasto solamente “un grido di resistenza”. Capace, solamente, di preservare moralmente il P.C.I. ed i suoi eredi da quello che poi è stato “Mani Pulite”.
In sostanza si dipinge un Berlinguer “impolitico”, incapace cioè di dare delle soluzioni alla crisi della politica.
Il “compromesso storico” considerato come il corto circuito della prima fase della Repubblica.
Il conservatorismo istituzionale e costituzionale del P.C.I., secondo qualcuno, non solo non impedì l’affermazione di Craxi, ma anzi favorì una progressiva involuzione della politica socialista. Berlinguer , siamo al delirio, rimase chiuso a quella “modernizzazione” che invece avrebbe ispirato la svolta del P.S.I. di Craxi. Svolta che aveva preso le mosse da istanze di libertà presenti nella società italiana e su quelle aveva fondato la necessità di una grande riforma istituzionale. Non si possono vedere le ragioni di quella politica. Non sappiamo se in essa fosse scritta l’involuzione degli anni Ottanta.
Si vuole, riteniamo, in questo modo far passare l’idea di un Craxi positivo nella sua prima fase politica ed uno negativo nella seconda fase. Negando così la vera sostanza di tutta la politica craxiana che è quella emersa con Tangentopoli.
Vi è stato nel corso di questi anni il tentativo di individuare un “revisionismo negativo della politica di Berlinguer” che procede di pari passo con un “revisionismo positivo del primo Craxi”. Ciò, sommato al presunto conservatorismo di Berlinguer verso le riforme istituzionali, serve, evidentemente, a portare acqua a coloro che sostengono che le riforme istituzionali rappresentano una salvezza, non si sa per chi.
Per chi come molti di noi ha iniziato a militare nel P.C.I. negli anni della segreteria di Enrico Berlinguer, discutere delle sue idee, della sua esperienza umana, delle sue battaglie, assume il significato di ripercorrere, con commozione, gioia ed anche con profonda amarezza visti i lidi a cui è approdato gran parte del P.C.I., gli anni in cui eravamo più giovani, gran parte della nostra esperienza e militanza politica e conseguentemente le lotte di quegli anni.
Per noi ha rappresentato e rappresenta una guida ed un punto di riferimento nell’agire politico quotidiano.
Il periodo di tempo che ci separa dalla sua morte, nel mondo ed in Italia, è pieno di profondissime trasformazioni:
il crollo dei regimi del cosiddetto “Socialismo reale” e la crisi del movimento comunista; la fine della così detta “prima Repubblica”, il mutamento dei soggetti e delle regole della politica.
In sostanza, sono venute meno le coordinate entro le quali Enrico Berlinguer ha dispiegato la sua azione ed il suo pensiero: partiti, stati, uomini.
Ma nonostante questi profondi mutamenti rimane il rimpianto di Berlinguer, “in quanto uomo non chiuso nel suo tempo”. E’ il destino riservato solo alle grandi personalità, agli uomini capaci di straordinarie aperture, di intuizioni coraggiose, di lampi sul futuro, di “pensieri lunghi” della politica, come egli amava dire.
Siamo convinti che una rilettura rigorosa di Enrico Berlinguer deve avvenire avendo cura di tenere nella dovuta considerazione il contesto storico in cui egli ha operato, gli aspetti più innovativi del suo pensiero, “i pensieri lunghi”, ma anche i mutamenti e le rotture avvenute nel corso della sua azione politica e i forti elementi di continuità nell’analisi della società italiana e nella strenua ricerca delle alleanze per una strategia di profonde trasformazioni democratiche e di riforma dell’Italia.
Siamo altrettanto convinti che è necessario evitare la contrapposizione tra un Berlinguer “responsabile ed unitario” , quello del compromesso storico, ed uno radicale ed innovativo, quello dell’alternativa; il recupero politico totale per l’oggi.
Fare tutto ciò assume il significato di misurarsi con la tradizione del comunismo italiano, con la sua forza e con i suoi limiti. Tradizione che con Enrico Berlinguer raggiunge l’apice d’influenza nella società italiana ed il suo punto più innovativo.
Nel ripercorre il suo pensiero e la sua azione emergono in tutta evidenza quelle che potremmo chiamare le virtù berlingueriane per eccellenza: il fascino di una purezza morale che incorpora l’etica nella politica, una inesausta tensione innovativa che fa del coraggio un attributo permanente dell’agire politico, una singolare capacità di penetrazione analitica che, osservata oggi, ci appare come vera e propria premonizione.
Quante cose giuste aveva detto ma in tempi precoci, immaturi, e quindi cose inascoltate, talora irrise e tra le ragioni di un successo calante.
Cose, per quanto ci riguarda, di eccezionale attualità che cercheremo di riassumere brevemente.

– La questione morale e la coeva crisi del rapporto tra la vecchia politica ed il Paese:

“I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società, della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sottobos”. La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la Dc: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora…” .
“I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali , gli ospedali, le università, la rai Tv, alcuni grandi giornali.” ….. “Tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data , un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.”

“La questione morale esiste da tempo. Ma ormai essa è diventata la questione politica prima ed essenziale perchè dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabilità del paese e la tenuta del regime democratico”.

– La costruzione di elementi di un governo democratico delle contraddizioni mondiali:

“Se vogliamo gettare uno sguardo più lontano, si può pensare che lo sviluppo della coesistenza pacifica, e di un sistema di cooperazione e integrazione così vasto da superare progressivamente la logica dell’imperialismo e del capitalismo e da comprendere i più vari aspetti dello sviluppo economico e civile dell’intera umanità, potrebbe anche rendere realistica l’ipotesi di un “governo mondiale” che sia espressione del consenso e del libero concorso di tutti i paesi. Questa ipotesi potrebbe uscire così da quel regno di pura utopia nel quale si collocano i progetti e i sogni di vari pensatori nel corso degli ultimi secoli”.

“La prima necessità ci sembra quella di considerare tutti i temi della cooperazione nella loro globalità, sia nel senso di valutarne tutti gli aspetti immediati e di prospettiva anche lontana, sia nel senso di coinvolgere e di associare tutti i paesi e tutte le aree del mondo. Globalità significa dunque, ovviamente, non limitarsi ai problemi pur rilevanti del petrolio, ma aprire la trattativa anche sulle altre fonti energetiche, su tutte le materie prime, sui prodotti industriali ed agricoli, sui servizi, sulla tecnologia e sulla ricerca. E tutto ciò noi vediamo non solo in termini di sviluppo degli scambi e di giusta definizione dei rapporti finanziari e monetari che vi sono connessi, ma anche e soprattutto in termini di vera propria cooperazione, verso forme più estese e organiche di divisione internazionale del lavoro.”

“La più drammatica ed esplosiva delle ingiustizie che dilaniano il mondo attuale è certamente quella costituita dal divario nello sviluppo e nelle condizioni di vita tra le regioni del Nord e quelle del Sud del pianeta: un divario che è conseguenza ed espressione di uno sfruttamento di origine secolare e che continua in nuove forme anche dopo il crollo del sistema coloniale. Lo sviluppo dei paesi del Terzo Mondo, prima ritardato o stravolto dal dominio colonialistico, rischia ora di venire nuovamente bloccato dalle enormi risorse dirottate verso la corsa agli armamenti, dalla contesa tra le massime potenze e dalla tensione Est-Ovest. L’acuirsi di questa tensione ha già portato a relegare in secondo piano e quasi a ibernare lo stesso dibattito sul problema Nord-Sud. Si ha così la riconferma che l’esasperazione della politica di blocco è esiziale ai fini della costruzione di un nuovo unitario ordine economico mondiale.”

“La questione fondamentale che abbiamo di fronte è che cosa fare perchè si realizzi la crescita dell’occupazione, l’espansione della produzione socialmente utile e lo sviluppo economico equilibrato su scala mondiale. In poche parole, come promuovere una concertata divisione internazionale del lavoro che dia luogo progressivamente alla formazione di un mercato unico mondiale. A questi ambiziosi ma non eludibili traguardi si può giungere con un solo metodo, quello di una leale collaborazione e cooperazione , su un piede di eguaglianza, tra paesi industrializzati e i paesi in via di sviluppo, tra i paesi capitalisti e i paesi socialisti: un particolare contributo all’instaurazione di questo metodo può venire dalla classe operaia dell’Europa occidentale e dal movimento dei paesi non allineati”.

“C’è il pericolo del disastro ecologico, anch’esso mai prima affacciatosi come conseguenza dell’opera dell’uomo.
C’è il divario crescente fra aumento della popolazione mondiale e risorse, con tutte le conseguenze che ne derivano per le condizioni di vita e per la stessa possibilità di nutrimento di grandi masse umane.”

– Il carattere dirompente e liberatorio di movimenti inediti come quello della donna:

“Certa mentalità retriva e discriminatoria nei confronti della donna, certe posizioni pregiudizialmente antifemminili e antifemministe, e tutti i modi di essere e di agire che ne derivano nei rapporti tra i due sessi e in ogni altra manifestazione della vita di relazione, costituiscono un ostacolo concreto e pesante all’emancipazione femminile, e, sì, in qualche misura fanno dell’uomo l’oppressore della donna. E non mi riferisco solo al borghese, al capitalista, ma anche all’operaio, anche al proletario, anche al comunista. E’ il retaggio di una storia antichissima che oggi, con la crescente consapevolezza femminile dei propri diritti, determina una certa lotta tra i sessi e l’esigenza per la donna di una liberazione anche nei confronti dell’uomo.”

“Oggi siamo nel pieno di un’epoca che, mentre vede l’ingresso nella storia delle masse sterminate dei popoli già oppressi e sfruttati dal colonialismo e dall’imperialismo, conosce anche su scala mondiale (ma in particolare in alcuni paesi fra i quali l’Italia) l’ingresso e la presenza innovatrice della donna, decisa a liberarsi finalmente da secoli di oppressione, di servaggio, di solitudine, di mortificazione, di violenza. Oggi entra in campo “l’altra meta del cielo”. La portata di questo evento non è soltanto un grandioso fatto in sè, ma proprio per la sua qualità, è sconvolgente, giacchè esso cambia i termini in cui veniva tradizionalmente intesa e fatta la politica. Non si tratta solo di non ostacolare , ma di comprendere, assecondare e far proprie le varie rivendicazioni specifiche attraverso le quali si sviluppa la progressiva emancipazione e liberazione della donna”.

“Una cosa è certa: che in Occidente la rivoluzione potrà esserci solo se essa sarà anche rivoluzione femminile, che senza rivoluzione femminile non ci sarà alcuna reale rivoluzione. E ciò per ragioni sia quantitative che qualitative. Di un’altra cosa siamo inoltre convinti: che per le donne vale quello che diciamo per il proletariato, e cioè che liberando se stesse, contribuiscono a liberare tutta l’umanità, e quindi anche i maschi.”

– Una visione austera dello sviluppo e del rapporto tra produzione e stili di vita:

“Una politica di austerità non è una politica di tendenziale livellamento verso l’indigenza, nè deve essere perseguita con lo scopo di garantire la semplice sopravvivenza di un sistema economico e sociale entrato in crisi. Una politica di austerità, invece, deve avere come scopo – ed è per questo che essa può, deve essere fatta propria dal movimento operaio – quello di instaurare giustizia, efficienza, ordine, e, aggiungo, una moralità nuova. Concepita in questo modo, una politica di austerità, anche se comporta (e di necessità, per la sua stessa natura) certe rinunce e certi sacrifici, acquista al tempo stesso significato rinnovatore e diviene, in effetti, un atto liberatorio per grandi masse, soggette a vecchie sudditanze e a intollerabili emarginazioni, crea nuove solidarietà, e potendo così ricevere consensi crescenti diventa un ampio moto democratico, al servizio di un’opera di trasformazione sociale.”

“Abbiamo richiamato in altre occasioni e anche di recente le profonde ragioni storiche, certamente non solo italiane, che rendono obbligata, e non congiunturale, una politica di austerità. Sono ragioni varie, ma occorre ricordare sempre che l’evento più importante, i cui effetti non sono più reversibili, è stato e rimarrà l’ingresso sulla scena mondiale di popoli e paesi ex coloniali che si vengono liberando dalla soggezione e dal sottosviluppo a cui erano condannati dalla dominazione imperialista. Si tratta di due terzi dell’umanità, che non tollerano più di vivere in condizioni di fame, di miseria, di emarginazione, di inferiorità rispetto ai paesi che hanno dominato la vita mondiale.” Continuava affermando che è necessario abbandonare “l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario”.

Si potrebbe continuare, ad esempio, con le idee di Berlinguer sul futuro, l’innovazione tecnologia , la democrazia elettronica , i giovani, la televisione. Mi fermo qui per non appesantire ulteriormente il lettore, che mi perdonerà di essere stato un po’ prolisso, ma era necessario e doveroso.
Necessario e doveroso per rispolverare capitoli di “un pensiero in cammino, qualcuno non giunto a compiutezza, che possono anzi devono ispirare chi oggi, sulla scena mutata, voglia perseguire il rinnovamento nella certezza democratica e nella salvaguardia dei valori di giustizia e di solidarietà. e chi, in questi tempi rampanti e cinici, perseveri nell’utopia di una politica alta e pulita”.

10 giugno 2013

Partito delle Rifondazione Comunista
Federazione di Catanzaro

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